Artisti

Rossella Biscotti
Carola Bonfili
Alice Cattaneo
Alex Cecchetti
Paolo Chiasera
Danilo Correale
Andrea Dojmi
Michael Fliri
Giulio Frigo
Christian Frosi
Anna Galtarossa
Nicola Gobbetto
Francesca Grilli
Simone Ialongo
Marzia Migliora
Valerio Rocco Orlando
Nicola Pecoraro
Alessandro Piangiamore
Farid Rahimi
Maria Domenica Rapicavoli
Davide Rivalta
Marinella Senatore
Luca Trevisani
Nico Vascellari
Enrico Vezzi

 

 
 
 
Palazzo Strozzi
23 Gennaio 2009 – 29 Marzo 2009
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Andrea Bellini
Luca Cerizza
Caroline Corbetta
Andrea Lissoni
Paolo Parisi




Paolo Parisi


I cinque artisti che ho coinvolto rappresentano perfettamente sia lo scopo dell’occasione, che prevede come premio una residenza estera, dunque un viaggio, sia la tradizionale (e benefica) “condanna” cui è tradizionalmente sottoposto l’artista italiano, e cioè l’obbligo a recarsi altrove e comunque lontano dal proprio luogo di nascita. Con qualche eccezione però, che rappresenta una speranza per il futuro. Se negli anni cinquanta la tradizionale emigrazione dei giovani artisti, e non solo, che cercavano fortuna era quella dal Sud d’Italia verso il Nord, oggi si tratta più di una migrazione, sempre probabilmente spaesante ed alienante come in passato, ma più allargata — all’intero Pianeta, non resta che scegliere — e più confortevole. Si attiva infatti sotto forma di “residenza” o di master di specializzazione. Oggi, a differenza di ieri insomma, non si va via e poi si vede (o perlomeno non tutti come un tempo), ma si va via se scelti e selezionati attraverso delle applications per le quali è necessario manifestarsi con le immagini dei propri lavori iniziali. La propria, seppur precoce ma non per questo meno nitida, immagine del mondo.

Partendo da chi ha fatto il “salto” più lungo, le due donne del gruppo (circoscritto a quest’occasione: oggi, tra l’altro, non si fanno più tanti gruppi): da Catania a Londra, e quindi dalle pendici del vulcano al vulcanico territorio urbanistico contemporaneo, Maria Domenica Rapicavoli (1976) e da Molfetta a Rotterdam, dall’utopia di società degli anarchici pugliesi, passando per l’antifascismo di Salvemini, all’utopia architettonica neoplastica di De Stijl, Rossella Biscotti (1978). A seguire, Alessandro Piangiamore (1976), da Enna a Torino prima e a Roma più di recente e perciò dal centro dell’Isola al centro (o Testa) del mondo”.

Identità (personale e collettiva), relazione (rapporto con l’altro e con l’altrui punto di vista spesso imprevedibile), luogo comune (dei media ma anche nel senso di necessità di uno spazio da condividere con gli altri nella realtà urbana) ed un’apparente ironia sono le qualità fondamentali del lavoro di MDR. Parlo di apparente ironia perché nelle manifestazioni attuali dell’arte questo termine indica spesso una presa di distanza. In realtà in MDR non ce n’è alcuna (di presa di distanza) perché tutto è li: da vivere, da provare, da esperire. Per scoprire, magari, che questa dove abbiamo trascorso le nostra ultima giornata — pensando magari a quattro vergini, amiche della futura sposa (“Four Virgins and a Bed”, 2007) che, secondo le prescrizioni di una tradizione siciliana, preparano il letto in cui l’amica giacerà per la prima volta con il marito dopo la celebrazione delle nozze — in realtà non è casa nostra (“My Ideal House”, 2007), come credevamo... ma un negozio di arredamento.

Per Rossella Biscotti l’indagine è (quasi) tutto. Da segugio, da spia ma anche da viaggiatrice o da semplice spettatrice (di cinema). Il suo lavoro indaga la memoria collettiva ed individuale confrontandosi con l’idea di verità e di ricostruzione determinate dalla storia, anche personale. In questo girovagare alla ricerca della verità può capitare di imbattersi in immagini fotografiche di interni ed esterni di architetture del periodo fascista (Cities of continuous lines”, 2006) o scattate dall’ingegnere Pietro Pensa nel corso del secolo scorso e utilizzate come strumento d’indagine (ancora) del paesaggio e della sua trasformazione, ascoltando nel frattempo la registrazione del “suono” interno delle rocce (Dai tempo al tempo”, 2008). Per giungere alla conclusione che “La cinematografia è l’arma più forte” (2007). Una reindagine ed un ricampionamento della memoria, personale e collettiva, trattata quindi alla stregua di materiale cinematografico non ancora montato. Una sorta di Post-produzione della memoria, quindi. Attraverso la quale è possibile comporre o ricomporre nuove trame narrative e nuove storie. Ma soprattutto rimettere in discussione quelle già esistenti.

Alessandro Piangiamore lavora sul malinteso generato dalla distanza che esiste tra l’apparenza delle cose (la loro parvenza estetica) e il loro stesso potenziale (inespresso, a suo dire). Ma l’operazione sottaciuta da Alessandro, la più importante per me, consiste proprio nella scelta del soggetto, che arriva, dopo accurata indagine della realtà e successiva selezione e scrematura “a levare” — come farebbe lo scultore col marmo, ma anche come Giulio Paolini sostiene vada fatto per tentare di “giungere” all’opera d’arte. Ci confrontiamo quindi su argomenti non scelti da noi ma abilmente scelti da Alessandro per noi. Credendo però di averli scelti noi (potenza e abilità della selezione!). Nel suo mondo, itinerante, può capitare di imbattersi in pozzanghere rovesciate (volumi pieni e non cavità), arcobaleni a testa in giù, linee d’orizzonte non orizzontali, miti di Atlante, ma anche “Socle du monde”, fino ad arrivare (un bel viaggio!) alle tracce del passaggio di un cane alla base di un lampione ...con la forma dell’intero pianeta (“L’osso è sacro”, 2005)!

La speranza per il futuro, a cui facevo riferimento all’inizio, è rappresentata dalla condizione di chi risiede nel posto in cui è nato e non intende spostarsi ma è in continuo movimento nel mondo, per brevi o lunghi periodi, necessari ed irrinunciabili oggi. In questa condizione troviamo Davide Rivalta (1974), o la pittura (e la scultura) che non si sono mai mosse da Bologna: dai Carracci a Guido Reni passando (a modo suo) per Grizzana Morandi; e Enrico Vezzi (1979), ovvero il disegno (inteso anche come progetto del mondo) che non s’è mai mosso dalla Toscana, dal tardo medioevale Maestro di San Miniato (città in cui risiede) fino ad arrivare alle rotte nello spazio delle odierne (e immaginate) invasioni extraterrestri.

Questo baricentro storico, utilizzato dal sottoscritto per identificare la “carnalità” originaria da cui i cinque attingono, non tragga in inganno: in tutti i casi le loro opere, seppur con le consistenti differenze che le distinguono le une dalle altre, si attivano e si nutrono della relazione con l’altro in questa dinamica tutta nuova del giovane artista italiano che ancora una volta si cimenta con l’identità, l’indagine, la forma, la materia, il disegno, ... ma tutto risplende e si manifesta soltanto attraverso l’incontro con la realtà dell’altro-da-se. Ma anche con l’architettura, la città e il paesaggio. Di oggi. E del Mondo.

Nelle sculture di Davide Rivalta, animali in scala generalmente 1 : 1, la materia che le costituisce è impressionante. A prima vista potrebbe sembrare frutto di un corpo a corpo che l’artista stabilisce con l’animale. In realtà egli ha costituito nel corso degli anni una sorta di “archivio di materie”, che realizza studiando gli animali dal vero, e che poi riproduce attraverso un complicato sistema di calchi con i quali successivamente riveste la superficie delle sue sculture. Si va quindi dalla parte scabra di epitelio in prossimità dei fanoni delle balene, alle superfici bitorzolute della schiena dei gorilla. La superficie delle sue pitture eredita questo modo di operare ed infatti, anche li, il colore ad olio, trattato alla stregua di un qualunque materiale calcabile da scultura (dall’argilla al gesso), riempie i calchi al negativo di schiene di bisonti e di becchi di pennuti, per arrivare persino a degli asparagi pronti da cogliere o a fiori di zucca appena sbocciati. In questo agire, caratterizzato da un’accurata operazione di copia e incolla delle superfici, l’uso che Rivalta fa di questo campionario mnemonico (e reale) è riconducibile, seppur con esiti diametralmente opposti, a quanto dicevo prima rispetto al modo di trattare la memoria da parte di Rossella Biscotti.

Enrico Vezzi si esprime attraverso lo sguardo (pittorico) unitamente alla volontà di utilizzare la pratica dell’arte come esperienza. In questo percorso è fondamentale la sua disponibilità verso l’inaspettato cui può imbattersi di volta in volta, ma anche verso un’eventuale condivisione di autorialità. Come nel caso del coinvolgimento del naturalista (in “Chromosphere” o nei “Disegni Magici”) per un’esperienza nel paesaggio di cui l’esito è, anche per l’autore, incerto fino all’ultimo. Questo costante rimettersi in gioco è il fulcro dell’operazione di Enrico Vezzi che infatti giunge all’arte, attraverso una formazione non “canonica”, dalla Psicologia. Questa forse è la ragione per cui egli sposta di continuo il baricentro del suo lavoro senza temere di rimettere tutto in discussione. Nell’opera “Al centro della terra”, dopo quasi venticinque anni sembra dialogare con l’opera di Michelangelo Pistoletto oggi collocata a Porta Romana a Firenze e che rappresenta una figura (la Toscana?) “frenata” da un’altra figura che le grava sulla testa (la sua stessa Storia?). In questo video l’autore danza abbracciato ad una dama toscana (la sua Toscana) sulla sommità della torre della sua città da cui si vede un grandioso scenario paesaggistico. Il risultato è una magnifica (e liberatoria) danza di 25 minuti, che accompagna il percorso del sole nel cielo fino al tramonto e quindi dalla luce, che rende visibili le cose, fino al buio. Per poi, magari, rimettere nuovamente in discussione tutto... Appunto.

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