James Bradburne
Franziska Nori
Piroschka Dossi
Pier Luigi Sacco
Wolfgang Ullrich
Julian Stallabrass
Boris Groys
Arte, Prezzo e Valore
Negli ultimi decenni, com’è noto, si è sviluppata un’enorme crescita del circuito dedicato all’arte contemporanea, che appare sempre più come un vero e proprio sistema economico, con regole proprie e un network di attori e operatori diversi e altamente specializzati. Il mercato dell’arte, sostanzialmente, viene definito e animato dall’insieme di gallerie, di collezionisti e case d’asta che contribuiscono alla commercializzazione di opere d’arte ma anche alla loro valorizzazione in termini di qualità e dunque di prezzo. Su scala internazionale attualmente questo mercato muove un volume di circa 20 miliardi di Euro l’anno.
Di conseguenza, non solo l’arte contemporanea, entrando in un sistema di valore e di brand sociale, ha acquisito un peso sempre maggiore nell’ambito del sistema di riferimento culturale, ma è diventata anche un reale fattore economico e di investimento, come dimostrano le esorbitanti quotazioni raggiunte durante le aste internazionali, o il crescente numero di manifestazioni, biennali, festival, fiere e mega-esposizioni, che riescono ad attrarre una sempre maggior affluenza di pubblico.
L’idea stessa di ‘valore’ attribuito ad una determinata opera d’arte, é ormai quasi esclusivamente dato dal suo successo economico e dunque dal suo prezzo. In un’epoca come questa ci sembrava interessante soffermarci ad analizzare la correlazione tra arte ed economia, e dunque tra arte, prezzo e valore.
Dagli anni Ottanta in poi il potere che l’economia ha esercitato in tutti i settori della realtà politica, sociale e culturale ha coinvolto anche il mondo della produzione artistica, rovesciando sempre più i termini di relazione tra il concetto di valore e quello di prezzo dell’opera d’arte.
In passato l’artista creava nella consapevolezza di una solida tradizione del pensiero, nell’ambito della quale cercava di inserirsi con il proprio manufatto artistico. Il riconoscimento del valore culturale (estetico ed etico) e del valore metaforico che veniva attribuito all’opera nell'ambito del contesto culturale e sociale nel quale essa veniva percepita, portava alla determinazione di un possibile prezzo. Il sistema critico e museale deteneva, in questa relazione, un ruolo centrale in quanto la sua missione veniva definita e affermata dalla funzione di studio, di interpretazione, presentazione e conservazione di quella che veniva poi definita “opera d’arte”. Allo stesso modo la creazione di una collezione era definita dalla rilevanza che le singole opere avevano o che acquisivano in un contesto culturale e in via di storicizzazione. Pertanto il valore ideale e metaforico dell’opera investiva anche la collettività.
Come si è detto però, nel corso degli ultimi vent’anni, il sistema ha subìto un’inversione. Il mercato, con la sua vitalità ha preso, pertanto, il posto del museo, sostituendo la sua autorevolezza critica e culturale con l’imposizione dei prezzi e proponendo direttamente le opere ai vari e possibili acquirenti, intenti a fare operazioni economiche basate sulla speculazione e sulla crescita di prezzo di opere ancora non affermate di giovani artisti. A questo punto è stato il mercato a creare il valore, definendolo però non dalla prospettiva di crescita culturale o di tradizione estetica ma dalla prospettiva molto più immediata del prezzo.
Ha avuto luogo un radicale slittamento dei ruoli e delle funzioni. I musei sono meno in grado di acquistare opere d’arte per le proprie collezioni per mancanza dei fondi necessari, venendo meno dunque al loro fondamentale ruolo di costruttori di identità culturale e di memoria storica per la collettivitá.
Parte degli artisti sono diventati imprenditori che creano prodotti diretti a un mercato d’elite e di collezionisti che sembrano essere i consumatori privilegiati, intenti, alcuni, ad acquistare arte come ulteriore diversivo in un mercato economico assai volatile e come valore di status culturale che permette loro di accrescere lo standing e il prestigio sociale.
Il principio della quantificazione economica è divenuto progressivamente il parametro con il quale si misura ogni aspetto della vita, sino a toccare persino i rapporti interpersonali.
Mentre circa trent’anni fá si era creato una sorta di mito dell’invincibilità e della superiorità del business man identificato in figure simboliche ed emblematiche come il broker newyorchese, archetipo dello yuppismo e del rampantismo anni Ottanta, immortalate anche dalla letteratura e dal cinema (per esmpio Michael Douglas in “Wall Street” di Oliver Stone, 1987), verso la fine degli anni Novanta l’immagine di successo ha iniziato a mostrare le sue prime crepe (come in “Le particelle elementari” di Michel Houellebecq, 1999) per arrivare poi alla più totale implosione di un sistema di stampo neoliberista basato sul principio della totale deregolamentazione, come lo stiamo vivendo in questi giorni sui mercati globali all’interno di una rapidissima reazione a catena.
A questo punto è lecito chiedersi: ma come hanno reagito gli artisti a tutto ciò? Soprattutto in relazione al pubblico fruitore? Certamente le reazioni sono state e sono di diverso tipo. Innegabile rimane il ruolo centrale dell’artista nell’intero sistema dell’arte e il suo riconoscimento dello sforzo di creare un’opera che esprima una visione propria della realtà.
Al di là di ciò, l’artista è al centro anche della sua personale lotta per trovare i finanziamenti necessari alla realizzazione delle sue idee, per trovare istituzioni adeguate che possano presentare pubblicamente il suo lavoro e acquirenti che possano “valorizzarlo” in termini di riconoscimento economico.
E, come già si è inteso, è sempre intorno all’artista che si snoda un articolato sistema composto da gallerie che fungono da scopritori di talenti, da istituzioni pubblico-private che, privi di fondi consistenti, devono saper alternare la scelta tra eventi di massa e di nicchia, da critici e giornalisti che analizzano e distribuiscono informazioni su strategie artistiche, da collezionisti che creano una fluidità del mercato e una necessaria domanda che permette, come in un circolo vizioso, agli artisti stessi la loro nuova produzione.
Trent’anni fa la reazione espressiva degli artisti alla crescita del mercato era stata quella di contestazione e di rottura delle convenzioni estetiche, al fine di provocare il sentimento morale dello spettatore e di innescare un processo di messa in discussione del sistema del mercato e di quello dei valori borghesi, considerati falsi e ipocriti.
Un ulteriore elemento di rottura con l’idea tradizionale dell’arte, con la commercializzazione e il conformismo delle idee fu l’introduzione dell’atto performativo come opera d’arte, che già durante gli anni Sessanta vide Joseph Beuys proporre il concetto di opera d’arte allargata, nella quale la stessa società e la politica venivano plasmate nell’intenzione di produrre un cambiamento, mentre, in linea contrapposta, Andy Warhol con il suo estremo populismo creava un sistema parallelo che celebrava i principi della società consumista della quale egli stesso si rendeva marchio (brand).
Con il rapido diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa la strategia dello shock e della provocazione dello spettatore diviene uno degli elementi più frequentemente utilizzati da parte degli artisti, seguendo la linea già tracciata dalle avanguardie storiche e dai primi tentativi di esaltazione della “riproducibilità tecnica” già avviati da Futuristi, Dadaisti e Surrealisti. Nella cultura di massa però nulla ormai sembra in grado di provocare un reale scandalo, poiché la società é pronta ad assorbirlo come novità da trasformare in prodotto di spettacolo e simbolo di life style.
Molti artisti oggi, infatti, collaborano con estrema naturalezza e creano solide sinergie con l’industria della moda, del cinema e della musica pop facendo parte integrante di un jet set globale che si é abituato a consumare l’arte come estremo e a volte incomprensibile oggetto del desiderio. Conformemente ai principi di una società capitalistica che riconosce il valore monetario come indice di valore assoluto, l’artista diventa operatore economico sia della propria immagine - del brand che esso rappresenta - sia dei prodotti sempre nuovi che vanno sapientemente inseriti in un sistema di mercato e di quotazioni. In una società del consumo e dell’effimero, il valore di un prodotto va sapientemente costruito. Il prezzo e il successo di un’opera d’arte vengono creati da un insieme di fattori, tra i quali la reputazione sociale dell’artista, l’importanza della galleria che lo rappresenta e, last but not least, la qualità dell’opera. Gli artisti spesso vengono messi in concorrenza tra loro, poiché, pur provenendo da realtà completamente diverse, sono costretti a utilizzare un linguaggio globalmente leggibile e commercializzabile, all’insegna spesso della spettacolarità e del conformismo estetico. Da qui il proliferare di riferimenti iconografici pop ai prodotti di consumo: pietre preziose incastonate in teschi, mostri giganti e colorati tratti dal mondo dei manga giapponesi, sculture antropomorfiche così iperreali da sembrare viventi etc.
Questi artisti, mega star del sistema dell’arte, sono senza dubbio in grado di creare opere di indiscussa qualità tecnica ed estetica, accattivanti e concettualmente intelligenti, ma nel contempo, non possiamo non notare che esse testimoniano la più completa disillusione su ciò che tradizionalmente era lo schema di valori dell’arte, l’idea della sua autonomia e il mito dell’artista come genio. Questi grandi manipolatori del mercato dell’arte hanno assimilato ciò che Warhol aveva creato, definendo l’artista come brand e come artefice di prodotti destinati a una società del consumo e proponendo una sofisticata strategia di vendita che non si può più scindere dall’opera stessa, essendone ormai il nucleo centrale.
Come dimostrano anche le opere dei ventuno artisti coinvolti nella mostra Arte, Prezzo e Valore, le reazioni espressive e le posizioni concettuali degli artisti sono varie e di diverso tipo, a partire da un atteggiamento di conformità ai principi vigenti del mercato per arrivare ad un approccio ironico e sarcastico, fino ad una sorta di “anti-posizione” che tenta di evadere e di allontanarsi dagli aspetti commerciali del processo di produzione artistica.
Damien Hirst e Takashi Murakami, che hanno, in un certo senso, assimilato più di altri la posizione di Warhol, sono riusciti con il loro talento e intelligenza ad arrivare a manipolare essi stessi il mercato: Hirst vendendo a cifre da capogiro opere di un raffinato concettualismo e arrivando a creare a Londra negli anni ’90 un ristorante alla moda “The Pharmacy”, il cui arredo, in seguito al suo fallimento, è stato venduto con enorme profitto da Sotheby’s superando ogni aspettativa; Murakami appropriandosi del logo di Louis Vuitton come una metafora dell’oggetto del desiderio; mentre inversamente l’industria del lusso incrementa il valore dei suoi prodotti grazie all’intervento dell’artista, che crea edizioni limitate che a loro volta diventano feticci come fossero oggetti d’arte.
Posizione antagonista è quella rappresentata da artisti come Michael Landy e Bethan Huws. Nella loro diversità estetica e formale esprimono un profondo rifiuto verso il principio di arte come prodotto di consumo.
Michael Landy, artista della fortunatissima generazione degli Young British Artists, assume una contro-posizione assai radicale rispetto all’iperproduttività finalizzata al mercato, mostrando nella videodocumentazione Break Down, un atteggiamento di nichilismo e di distruzione relativo a tutto quello che di materiale è in suo possesso: dai suoi oggetti personali, alla macchina, alle opere d’arte da lui prodotte precedentemente, che su una sorta di nastro trasportatore vengono trascinati in un tritatutto.
Bethan Huws, molto più minimal, presenta una semplice word vetrine (lavagna in feltro) sulla quale, con lettere bianche è composta la scritta “Che senso ha offrirti ulteriori opere d’arte se non hai capito quelle che hai già”, riferendosi al fruitore d’arte ma anche al collezionista onnivoro che si ostina ad acquistare opere concettuali che probabilmente non capisce.
Tra questi due poli si possono situare le posizioni intermedie di tutti gli altri artisti presenti in mostra, con atteggiamenti e modalità che vanno dall’ironia al sarcasmo, dal gioco alla messinscena, dal paradosso alla contraddizione.
Dan Perjovschi sintetizza con sarcasmo, nei suo disegni murali in stile vignettistico, singoli aspetti del mondo dell’arte, evidenziando le contraddizioni insite all’interno del sistema. Con lo stesso spirito ironico Pablo Helguera arriva a redigere un manuale che dà suggerimenti sulle regole di comportamento secondo le aspettative di coloro che fanno parte del sistema culturale.
Nell’ambito della creazione di una farsa, Christian Jankowski con il suo video Kunstmarkt TV mette in scena una televendita nella quale fa intervenire veri professionisti televisivi che promuovono opere di famosi artisti contemporanei. Una messa in scena quasi teatrale è quella di Aernout Mik il quale crea uno spazio fittizio coinvolgendo il visitatore in una scenografia che rappresenta il trade floor della borsa di New York a fine giornata, con fogli di carta sparsi ovunque tra i quali singoli operatori vagano anch’essi come resti del processo economico. Atelier van Lieshout inventa addirittura un’intera città del futuro Slave City, un progetto urbanistico con vari e diversi luoghi di lavoro e di aggregazione, metafora di una visione pessimistica dell’esistenza umana totalmente dedicata alla massimalizzazione dei processi produttivi.
Con valore immediato e sintetico Marc Bijl gioca sulla parola simbolo del principio capitalista basata sull’idea di libertà dell’individuo. In realtà, nell’opera è evidenziata la grande contraddizione di questa parola che per essere letta deve essere composta da più elementi e allo steso modo la tanto ricercata “singolarità” dell’individuo ha modo di essere espressa solo grazie al consumo di prodotti industriali realizzati in serie e che dunque non mantengono la promessa di unicità. In un senso ancora simbolico ma nel contempo ironico, Eva Grubinger ha prodotto un vero e proprio gioco di società che usa tutte le figure del sistema dell’arte, dal curatore al direttore di museo, al critico d’arte e il collezionista, come pedine di una sorta di monopoli.
Intorno al valore e al concetto dei soldi, delle valute e dei titoli azionari in borsa lavorano Claude Closky, che ha disegnato una carta da parati per interni che eleva a principio estetico e decorativo i tabulati con i valori del Nasdaq e Fabio Cifariello Ciardi che propone una rappresentazione visiva e sonora delle fluttuazioni dei titoli dell’indice Nasdaq e del singolo titolo della casa d’asta Sotheby’s quotata in borsa. Anche Cesare Pietroiusti gioca intorno al valore dei soldi e delle banconote che manipola ed espone come feticcio da prendere e portare a casa, mentre Wilfredo Prieto arriva a rendere virtuale il valore di una banconota da 1 dollaro che riprodotta 1 milione di volte, attraverso un gioco di specchi, assume realmente quel valore in termini di prezzo e di valore reale. Antoni Muntadas, invece, ha ideato un lavoro work in progress dove l’artista testimonia di aver consumato una somma di 1000 dollari in una serie infinita di cambi di valuta fino ad arrivare a zero, producendo una trasformazione totale dell’importo che crea profitto solo per le banche.
Anche Luchezar Bojadjiev fa un’analisi critica del sistema fagocitante partendo dalla propria esperienza personale. Egli muove, infatti, una precisa accusa verso le istituzioni museali e verso i diversi protagonisti della cultura riflettendo su quale è e su quale dovrebbe essere il ruolo dell’artista nell’intero sistema economico dell’arte.
Con il suo sito internet www.theyrule.net, Josh On realizza delle mappature “del potere” al fine di rendere visibili i legami e gli intrecci tra persone ai vertici di imprese pubbliche e private che adempiono contemporaneamente a ruoli di alta responsabilità in varie imprese. Vengono svelati, così, gli interessi comuni e gli enormi profitti che esistono nel sistema economico e politico mondiale.
Denis Darzaq fotografa danzatori urbani tra i corridoi dei supermercati gremiti di prodotti mentre compiono movimenti acrobatici e fluttuanti, fissati e sospesi nello spazio ma anche nel tempo. Anche Marco Brambilla si sofferma sull’estetica dei supermercati, realizzando un video in un centro commerciale americano, visto come tempio moderno del consumismo dei nostri giorni. Il video, manipolato in post produzione nei suoi diversi elementi, sembra ricreare un’atmosfera che evoca le grandi cattedrali gotiche.
Thomas Locher realizza, invece, dei suggestivi dipinti utilizzando come elementi costituenti frasi e pensieri formulati da Karl Marx ne “Il Capitale”. Le frasi riflettono sulla correlazione tra l’oggetto di consumo, il suo valore ideale e quello attribuito, e sono messe in contrapposizione con la gestualità espressiva simbolo della genialità unica dell’artista.
Per l’individuazione e l’analisi di queste diverse posizioni rispetto alla complessità relazionale tra sistema economico e regole di funzionamento del mercato dell’arte, è stata determinante Piroschka Dossi, autrice del libro pubblicato nel 2007 e intitolato Hype! Kunst und Geld (Arte e Denaro) e invitata da noi a co-curare il progetto espositivo “Arte, Prezzo e Valore” presso il CCCS.
Grazie all’eclettica formazione in legge, in economia ma anche in storia dell’arte dell’autrice, il suo libro ci offre uno strumento di analisi dei singoli fattori costitutivi e dei principi a monte di un sistema che vede l’opera d’arte essere oggetto del desiderio e allo stesso tempo prodotto commerciabile per un pubblico di nicchia. Il CCCS in sinergia con lo IUAV di Venezia ha promosso l’edizione italiana del volume, pubblicato dalla casa editrice Silvana Editoriale.
Il libro ripercorre, dal Rinascimento ad oggi, lo sviluppo del fenomeno della correlazione tra artista, oggetto d’arte e fruitore per arrivare poi a una dettagliata analisi del funzionamento economico del sistema dell’arte attuale.
Gli stessi concetti, resi in una maniera ancor più oggettiva, sintetica e contestualizzata nell’ambito della mostra, si ritrovano nel saggio di questo catalogo che contribuisce in modo estremamente brillante alla comprensione profonda del contenuto delle opere d’arte contemporanea esposte.
Così anche gli altri autori: i teorici e studiosi Boris Groys, Pier Luigi Sacco, Julian Stallabrass, Wolfgang Ullrich, contribuiscono, con la loro profondità di analisi e diversità di approccio, ad una comprensione elaborata e su più livelli del fenomeno del mercato e dell’economia dell’arte.
L’intenzione della linea curatoriale già dimostrata nelle scorse mostre durante questo primo anno di vita del CCCS e che caratterizzerà ancora il programma futuro del Centro, è quella appunto di scegliere e di presentare una serie di progetti che affrontino temi e fenomeni rilevanti non solo per la storia dell’arte contemporanea, ma per una comprensione profonda della nostra cultura e della società in cui viviamo.
Nella scelta del termine Cultura al posto di Arte, il Centro ha voluto puntare su una specifica differenza: non solo arte contemporanea, dunque, ma cultura contemporanea. Potremmo vedere in questo una volontà di abbracciare un'ottica più vasta e multidisciplinare, che è forse l'unica via per tentare un'interpretazione della contemporaneità. Infatti il CCCS intende essere una sorta di piattaforma aperta alla varietà di approcci e di pratiche che caratterizzano la produzione di arte e cultura di oggi. Aperta anche nel senso che la mediazione culturale non sarà finalizzata allo sviluppo di un’unica interpretazione, bensì a stimolare la cultura del dibattito critico e una lettura degli strati molteplici e multiformi che compongono la realtà complessa e talvolta apparentemente contraddittoria in cui viviamo.
inizio pagina
Luchezar Boyadjiev (BUL)
Marco Brambilla (I/USA)
Marc Bijl (NL)
Fabio Cifariello Ciardi (I)
Claude Closky (F)
Denis Darzacq (F)
Eva Grubinger (A)
Pablo Helguera (MX)
Damien Hirst (UK)
Bethan Huws (GB)
Christian Jankowski (D)
Atelier van Lieshout (NL)
Michael Landy (UK)
Thomas Locher (D)
Aernout Mik (NL)
Antoni Muntadas (E)
Takashi Murakami (J)
Josh On (CAN)
Dan Perjovschi (RUM)
Cesare Pietroiusti (I)
Wilfredo Prieto (CUB)